Tutto comincia nel 1990 con l’idea dell’arte-terapia, l’idea di portare l’arte in manicomio per accompagnare il percorso dei degenti che nonostante la legge di abolizione dei manicomi (la legge Basaglia del ’78) continuavano a vivere — o meglio sarebbe dire a vegetare — all’interno della struttura.
Marina racconta di esserci entrata con in testa la vera e propria tragedia di Camille Claudel, la sorella maggiore di Paul Claudel, lo scrittore cattolico che insieme con la madre e l’altra sorella contribuì all’internamento di Camille e al suo abbandono nel manicomio di Montfavet, dove visse per trent’anni, dal 1913 al 1943, non uscendone mai.
Marina, che conosce il dolore, e che ha fortemente lavorato per diventare se stessa, ha fatto l’Accademia, è scultrice, conosce l’arte e conosce le figure maestre dell’arte sua, e dunque anche il legame di Camille e di Rodin, la passione che li ha tenuti congiunti e poi finita anch’essa in abbandono.
Ed entra in manicomio con in testa quella sofferenza di un’artista grande confinata nella lucidità delle sue sofferenze, consapevole dell’enorme ingiustizia che la sua stessa famiglia contribuisce a perpetrare. “Trent’anni di creazioni e trenta di manicomio”, pensa Marina entrando per la prima volta nei cortili dell’antica caserma-convitto.
E nel grigiore generale trova la desolazione: lugubri corridoi, bagni senza porte, panchine su cui siedono o stanno più frequentemente sdraiati o accucciati uomini perduti, figure che camminano tremule, incerte, chiuse in se stesse, urli, odori, sguardi smarriti, occhi che guatano dai vetri. L’ignoto che si manifesta in presenza enigmatiche, inquietanti.
Ma la determinazione di Marina non si lascia incrinare dalla difficoltà. Trova un carretto, ci carica i suoi buglioli di colore, i suoi barattoli, i pennelli, i fogli, tende un lenzuolo in un cortile, teme di non trovare chi l’assecondi, ha paura di non “incontrare”, di fallire, ma agisce, ed è premiata.
Simona Colonna ha musicato le parole scritte con Francesco Occhetto e ne è nata una canzone:
Marina dai, tira il carretto
ti seguono tutti i colori
tu parli ed è l’unico affetto
del mondo che viene da fuori.
Marina dai tira il carretto
guarisci le pene e i dolori
con l’arte che unisce persone
esplode qualsiasi prigione.
Qualcuno comincia ad avvicinarsi, a incuriosirsi, qualcuno timidamente comincia a imbrattare, poi si cominciano a intravedere sagome elementari: una casa, un albero, un omino a braccia aperte. Nasce un laboratorio che nei giorni si arricchisce, diventa consuetudine, si fa attesa…
Tratto dal libro di Giovanni Tesio
I colori del nero
Arte e vita nel manicomio di Racconigi
Cap. 6 – Il carretto di Marina
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