Percorsi

Giancarlo Giordano tra l’infermo e il vero amore

C’è un Lager nella sua mente e nella sua memoria, un Lager che non cessa di abitarlo e possederlo. Passano gli anni, ma la memoria non recede e la ricerca va in cerca della sua cancellazione.
È nel bitume la forza della negazione che dice, che parla, e che – urlando – tace. Un groviglio di contraddizioni in atto, che vedi nei gesti, nelle posture, nell’orrore stupefatto dei volti sghembi, squilibrati, in cui vorticano ottusi i neri degli occhi, cancellati.

L’artista è Giordano, che se non vivessimo in un mondo di passioni tristi e di critica troppo mentale, e se lui – per suo conto – non fosse l’uomo che vive distante dalla fabbrica della fama, dovrebbe avere più giusti e meritati riconoscimenti critici.

Se per un autore la ricerca dello stile è tutto, ciò significa che l’espressione – l’unica espressione – deve coincidere con la morale del “messaggio” (parola di cui possiamo ben tornare a proporre l’importanza). Non il cosiddetto “contenuto”, beninteso, che non è tutto, ma la fusione del contenuto nella sua voce, nel suo segno.
Un segno che a sua volta fonde in sé morale ed estetica, due specificità necessariamente congruenti, capaci di penetrare nella corteccia di un qualsiasi mondo per sprigionarne (per scarcerarne) – viaggiando in profondità – le più risonanze più abissali.

Giordano viene da una chiamata che ha la sua storia, ma che sembra avvenuta fuori dalla storia, dalla storia tanto di un paese della provincia piemontese quanto di una famiglia di dignitosa povertà ma non priva di pur modesti stimoli culturali alla svolta del secondo dopoguerra.
In quel luogo e in quella famiglia c’è un bambino che fa il panettiere e poi un ragazzo che fa il fabbro, ma che intanto matura dentro di sé la passione dei colori, affascinato da certe immagini di artisti che è una rivista come Famiglia Cristiana – rivista che erano le parrocchie a diffondere e che non mancava mai nelle case cattoliche – a proporre ai suoi lettori.

Con occhio stregato e con mano fertile – la stessa con cui ad un tempo Giordano accudisce la saggezza dell’orto e la saldatura delle cisterne, che negli anni ormai del boom economico servono al riscaldamento delle case e dei palazzi – quel ragazzo nel frattempo s’è fatto adulto e ha tentato e ritentato, provato e riprovato, copiando immagini, accostando colori, dando forma sempre più convinta alla realtà delle sue impressioni, della sua forte e fiera emotività.
Un processo di cui è forse impossibile, oggi, rintracciare distintamente le tappe, ma che vale come un apprendistato selvaggio, come l’esercizio accanito (c’est Venus toute entière à sa proie attachée…) di un autodidatta che inventa il suo percorso senza altri appoggi che la sua passione, la sua tenacia, il suo fuoco interiore.

Giordano era e resta un lupo solitario, uno di quelli che non appartengono a consorzi, a comitive e tanto meno a gruppi o gruppuscoli di mutuo sostegno. Lui, solo nel farsi, resta solo nel proporsi a se stesso e ad altrui, capisca chi può, e altro non cercare.

Nella sua vita c’è però un passaggio cruciale, un punto decisivo che – paradossalmente – dà un senso al tutto. E questo passaggio è un viaggio (un attraversamento) nella terra desolata del “manicomio”, come sempre s’è chiamata quell’“istituzione totale” prima che qualcuno riuscisse a immaginarne un altro nome più politicamente corretto, insieme con un’altra e diversa dimensione finalmente più umana: a partire dalla rivoluzione di Basaglia, che alla fine si è affermata non senza traumatici revirement, o tentativi di ritorno, alimentati da disonesti interessi di parte.

È il manicomio, insomma, dove Giordano entra come infermiere nel 1969, a convertire la sua vita in un destino. Da lì – luogo di dolori e di orrori – passa un’esistenza che si manifesta a se stessa e passa un orientamento espressivo che – pur in tutti i suoi mutamenti di tempo e in tutte le sue metamorfosi di tratto – si mantiene a tutt’oggi costante.
È in quella discesa agli inferi la cifra che detta (il dantesco “dittare”), la stravolgente carità (umana e artistica) che pulsa e che urge, ossia che si rende davvero necessaria, essenziale.

Il viaggio di Giordano non è né più né meno diverso – alla risultante – del viaggio che Levi compie in Lager.

Si rifletta pure sulle proporzioni. Diverse, d’accordo, le condizioni, perché Giordano è un addetto del sistema, quantunque illuminato, mentre Levi è una vittima sul quotidiano crinale di una totale destituzione. Né sono al tutto ed evidentemente identiche le forze in campo e le modalità specifiche.
Ma, quanto a destituzione, quale uomo sarà mai il malato che viene sottoposto alle terapie più violente (l’elettroshock, la malarioterapia, l’insulinoterapia…), a pratiche sadiche, reparti come incubi, promiscuità e indecenza, procedure insensate, la nessuna considerazione di corpi in pena, di anime votate a una sorta di vera e propria dannazione feto-fecale, la negazione dell’umano (Se questo è un uomo…), l’abominio della desolazione.

L’incontro è decisivo. E da qui comincia, per così dire, la vera storia di un artista, la svolta che diventa un’ossessione. Art brut? Sarà bene non confondere, perché se l’arte è sempre e in ogni caso “terapeutica” (perché risarcisce o perlomeno va incontro al risarcimento della ferita da cui sempre procede), resta che Giordano viene da una scuola che s’è fatto, sì, da sé, ma che ha i suoi numi tutelari, i suoi maestri.
Lunga sosta al Goya delle “pinturas negras”, impressionanti per espressionismo manifesto: El Santo Oficio, ad esempio con quei volti in prima vista, cupi, carbonchiosi, deformi. Oppure l’Aquelarre o El gran cabrón? Volti in tumulto, stupefatti, e il capro in posa profetica, annunziante. O, ancora, i Dos vijos comiendo (un teschio e una strega) fino a La romeria de San Isidro (cupezze, desolazioni, ammassi inquietanti). Ma poi via via Rouault, Bacon, fino a Basquiat.

Maestri e compagni che magari Giordano è pronto a contraddire, perché non c’è vero maestro che un qualsiasi allievo non aspiri – e di necessità – ad attraversare, per diventare il più possibile se stesso e trovare lo stile (l’ho detto fin da principio) che solum è suo.
Ma maestri e compagni che lungi dal fare di lui un epigono, ne fanno un autore.

Giordano non distribuisce conforti o facili consolazioni. Anche perché il suo segno tende alla deformazione non per denuncia ma per consanguineità.
In quelle sue figure sempre più bituminose, che assumono spesso la postura dell’auto-crocifissione, rintraccio i segni di un’appartenenza che è fraterna e che non proviene nemmeno più dal manicomio come luogo deputato e denunciato, ma dalla più profonda matrice di un’umanità che nell’orrore si specchia, e che pronuncia la sua inesorabile responsabilità.

Nel segno della sua arte, Giordano ci parla dunque – energia del suo stile – di un’ossessione che è memoria, ossia accoglienza.
Se nessun uomo dovrebbe essere chiamato pazzo, come ci ricorda Heinrich Böll citando il romanzo di Salinger, Alzate l’architrave carpentieri, in una delle sue Lezioni francofortesi, questo è lo spirito della pittura di Giordano.

Una pittura profondamente umana. Accogliente e “imperdonabile” come solo sa essere il vero amore.

Tratto dal libro di Giovanni Tesio
I colori del nero
Arte e vita nel manicomio di Racconigi
Cap. 7 – Giancarlo Giordano tra l’inferno e il vero amore

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