Dicono di me
Senza fine
Nel ventaglio delle opere di Marina Pepino, i temi di ricerca e i processi stilistici si dispongono secondo una linea di tendenza a due poli, con il passaggio da uno “stile di accumulazione” a uno “stile di deprivazione”. I suoi oggetti-sculture esibiscono, infatti, o degli elementi aggiuntivi al corpo dell’opera o degli elementi sottrattivi dal corpo dell’opera (ossia delle parti a vuoto).
Il processo di accumulazione è del tutto evidente non soltanto nei vasi parlanti (che rappresentano persone o animali che “si affacciano” per tentare di liberarsi dalle matrici o dalle nicchie protettive entro cui si sono rannicchiati), ma anche in una serie di opere, come Non sono sola (legno, rame, pietre, cm 180×35, anno 2012) o Superstite (ferro di recupero, terracotta, cm 40×30, anno 2011) dove il superstite si addossa, quasi legandosi, alla piattaforma di salvezza) o in A Camille (dove la figura dell’infelice scultrice francese si slancia contro un muro di cemento armato pigmentato che la trattiene inesorabilmente nella sua massa sorda e opaca, che rappresenta il muro dell’indifferenza materna e dell’emarginazione sociale) (Fossano, Naviglio di San Giuseppe, installazione del 1989).
Al contrario, un processo di deprivazione si ritrova, ad esempio, in un’altra serie di opere: nei numerosi mascheroni (facce stralunate incuneate tra le rocce o le pietre o i tronchi d’albero) a cui penso come a dei soggetti mutilati, oggetti aspiranti a una ipotetica completezza, o in Incursione saracena (ferro, terracotta, installazione aerea con pedana, cm 120×100, anno 2012), dove una serie di aste in ferro, sovrastate da teste mozzate, s’innalzano contro il mare di Cervo come dei totem inquietanti).
Se questi processi di accumulazione e di deprivazione sono reali e costituiscono un filo rosso (una linea di tendenza) nella produzione di Marina Pepino, possiamo domandarci quale significato espressivo essi assumano all’interno della sua inventività. Uno dei meccanismi inventivi a cui ella sembra appoggiarsi potrebbe essere individuato nel processo di contaminazione di elementi eterogenei oppure, all’inverso, nel processo di scomposizione del quadro percettivo: disintegrare l’unità organica per liberare schegge e frammenti. Non si darebbe l’idea di un oggetto a se stante, un oggetto singolo, strutturalmente indipendente. La regola fondamentale sarebbe quindi una percezione multipla (ed eterogenea) della realtà. Se rappresento un soggetto (un uomo, un animale, un oggetto di uso quotidiano) e lo rappresento nel suo contesto, il contesto (la teca che chiude l’uomo o l’albero, la prua che accoglie i Naufraghi, terracotta, cm 40×15, anno 2011, ecc.) impongono al soggetto le proprie ragioni: far posto agli elementi divergenti e alle reciproche incompatibilità. Far posto alle diversità dei progetti, dei materiali e delle tecniche. A me sembra che questo meccanismo assuma l’obiettivo di non escludere elementi disparati, centrifughi, di legittimare interpretazioni di grande impatto visivo e d’indubbio sapore surrealista (come, tra gli altri, l’Incursione saracena).
Uno sguardo anche provvisorio al suo curriculum c’induce a ricollocare – secondo una classificazione di generi – la serie ormai imponente dei suoi lavori, dove la ricerca sperimentale si alterna a prove che guardano all’indietro (o in avanti?), ai maestri della tradizione. Negli anni intorno al 2000, l’artista si misurò nel ciclo delle memorie (suscitato dall’esperienza indiretta delle segregazioni e di innumerevoli esistenze spezzate, uomini e donne delle prigioni o degli ex ospedali psichiatrici). I lavori si avvalevano di lamiere staccate dalle porte del Forte di Tenda o di tavole polimateriche dedicate alla condizione di repressione inferta ai malati mentali: rinchiusa sotto un’inferriata anche una spirale, simbolo della speranza. In parallelo a questo ciclo, la cosiddetta foresta gotica (una molteplicità di moduli verticali realizzati nell’anno 2001 con armature di ferro, canne di sambuco e maschere di terracotta); il ciclo del silenzio o visioni del vuoto (anno 2003) (teste in argilla modellate a lastra, otto figure assorte in una meditazione, con lo sguardo assente di chi si affaccia sul vuoto o guarda entro se stesso). Con il ciclo degli eroi e dei semidei Marina Pepino proponeva negli anni dal 2000 al 2003 una sua rivisitazione della mitologia classica (Bellerofonte Edipo Orfeo Tàntalo Giasone Meleagro, Càstore Pòlluce Tieste Cadmo Perseo Chirone Ercole Teseo Dèdalo Atreo Euridice): diciassette installazioni che esibivano materiali di recupero disposti secondo un limpido astrattismo geometrico. Tavole che s’impongono all’attenzione (e alla memoria) degli osservatori per l’efficacia rappresentativa, per l’eleganza della decorazione e anche per l’ironia con cui sono assemblati i materiali più inusuali (chiodi, ossi, pietruzze, legni disfatti e sbrocchi di rami, fili di ferro, graticole…) nell’intento di ricomporre il carattere e la fisonomia attribuiti agli “eroi” dalla tradizione.
Alcuni soggetti (i mascheroni, gli stravaganti e sbilenchi bambolotti, le teste stilizzate) non sorgono dal nulla; al contrario, si costruiscono nell’onda lunga di una ispirazione derivata, per suggestioni inevitabili, dai grandi esempi, dai modelli innovativi, primo tra tutti dalla lezione di Constantin Brâncuşi: semplificazione formale, ricerca della forma primigenia: l’ovoide, l’ellisse, il cerchio, materiali disparati (terracotta, legno, pietra, ferro, bronzo). In Brâncuşi – come ha osservato in un suo testo del 1976 lo storico dell’arte Sam Hunter dell’Università di Princeton – si è realizzato il paradosso per cui la sua scultura resta l’essenza della modernità, mentre è singolarmente fuori del tempo… Un paradosso còlto da Brâncuşi stesso, quando osservava in uno dei suoi aforismi che “Io col mio nuovo vengo da qualcosa che è molto antico”. Alla radice del modo di far scultura nel Novecento stanno, infatti, Le Baiser (Il bacio) del 1908 e La Muse endormie (La musa addormentata) del 1910, due prototipi di valore assoluto. Chi non ha attinto ai modelli espressivi di Brâncuşi? Una terracotta modellata da Marina Pepino nel 1994 con severa sobrietà (Figura dormiente) scioglieva il suo debito artistico “contratto” con il grande maestro dell’atelier parigino di Vicolo Ronsin 8 e con una delle sue opere più significative: Le Sommeil (Il sonno, 1903).
Quando – come in questo caso – si tenta di abbozzare la matrice culturale di un curriculum non si fa un’operazione riduttiva; al contrario, lo si sottrae a un ambito locale e a valutazioni restrittive per riconoscerlo parte integrante di una comunità ideale di artisti (una corrente, una scuola, un modo di far scultura). Se un’opera d’arte non ci lascia indifferenti, essa promuove in noi la ricerca di una corrispondenza culturale con altri artisti e la memoria storica ci riporta – per il tema o per lo stile o per i materiali – a precedenti illustri. Qualche esempio: una pregevole opera giovanile di Marina Pepino (Gli amanti, 1986) ci rimanda a La sete (1935) di Arturo Martini, una figura di donna sbozzata nella pietra e lavorata fino al punto che oggi si definisce del “non finito”. Le figure dolenti, che ritroviamo nelle opere di Marina Pepino, non possono non ricordarci le figure allampanate di Alberto Giacometti (Foresta, 1959) e due interpretazioni del 1953 di Marino Marini (Piccolo giocoliere e Piccola danzatrice). Le “gabbie” delle sue “opere ecologiche” (L’ultimo albero e Solitudine) mi richiamano le armature a teatrino di Luciano Minguzzi (Acrobata al trapezio, 1952).
Sono i cattivi pittori o i cattivi scultori che non ci rimandano a niente e a nessuno. Ma al di fuori delle ascendenze e delle matrici rintracciabili nell’arte dell’artista fossanese, è innegabile nelle sue opere (e alla radice della sua inventività) la ricerca di una forma-tipo, di una forma generatrice, di un principio di selezione. Nella scultura il primo principio di selezione è dato dal materiale di lavoro (dalla “pietra”, come semplificando diceva Moore). Uno scultore quasi sconosciuto in provincia, Michel Pellegrino – che un tempo “lavorava” le pietre da lui raccolte sulle rive del Gesso, al di sotto del Ponte di Ferro di Borgo San Dalmazzo, – mi diceva un giorno del suo “amore” per la pietra grondante acqua e fango e levigata per lunghi anni dalle acque del torrente, per la capacità della pietra di “suggerire” allo scultore il tema del lavoro. Egli – come il Brâncuşi del Nouveau-né (Il neonato) (1915-16) – di queste pietre a forma ovoidale ha fatto (con pochi interventi allusivi all’anatomia femminile) un simbolo: il simbolo della madre che partorisce il suo bambino. Forse Michel lo ignorava, ma la sua sensibilità non differiva nella sua essenza dalla sensibilità di Henry Moore, quando il grande scultore inglese confessava di “guardare la pietra”, per tentare di scoprire “che cosa voleva la pietra”: “Io non voglio fare una donna di pietra, ma una pietra che suggerisca una donna”; e ancora: “In una buona scultura non è la figura che prende vita, ma la pietra mediante la figura”.
Altri princìpi di selezione nel lavoro artistico di Marina Pepino sarebbero, dunque – oltre ai due processi a cui ho accennato di accumulazione e di deprivazione e oltre ai cicli di cui si è appena detto – l’attenzione per il rapporto prevaricatore dell’uomo con la Madre Terra, l’allarme per il degrado ambientale (L’ultimo albero, legno, ferro, terracotta e rame, anno 2014) e la denuncia dell’alienazione degli individui nella società post-industriale (Solitudine, legno e terracotta, anno 2014).
Soltanto una rassegna più esauriente del suo lavoro porterebbe ad allargare il campo d’indagine. L’osservatore esterno ha l’impressione che Marina Pepino “ricominci” sempre e sempre riprenda la ricerca su altri versanti e su altri temi. Una ricerca senza fine.
A Camille
[……] Quanto alla scultura di Marina Pepino, alla quale già si è accennato, si tratta di un’opera apparentemente lontana, per quanto concerne la figura, la pura “sagoma”, anche per la posizione del tutto insolita di una donna che parla al muro, dal rappresentare una lavandaia. Parlare al muro è, invero, metafora efficace per significare il parlare a che non ascolta e in questo senso, la nostra statua, più che la lavandaia parrebbe a prima vista rappresentare la condizione femminile in generale, così come essa si manifestò fino a ieri nella “società degli uomini”. Potrebbe, infatti, ugualmente indicare sia il lamento di una madre inascoltata, sia, più semplicemente, la ininterrotta querela di una donna, una delle tante, delle quali sono misconosciuti i sacrifici. Gli è che Marina Pepino, passando dall’esperienza dell’espressionismo, che sembra essere stato il suo primo rapporto stabilito con l’arte, al figurativismo contemporaneo, prende una scorciatoia rapidissima che la costringe a reticenze numerose: di qui l’esitanza o la perplessità che di primo acchito può prendere l’osservatore di fronte alle sue sculture. Ma la forma, delle opere d’arte, non si identifica mai con la pura “sagoma”: essa è piuttosto da cercare nei valori tattili che l’opera presenta, quelli che stimolano l’immaginazione a sentire i volumi e a comprenderli, seguendo i quali l’opera si fa esteticamente leggibile.
Così si scopre, ad esempio, che la superficie scavata e raggrinzata della nostra scultura, simile a quella del muro al quale è rivolta, o la geometrica rotondità della figura dicono della lavandaia l’energia temprata ai lunghi disagi; che capelli, nel loro scendere a ciocche compatte e pesanti sul dorso, raccontano il peso di persistenti, quotidiane fatiche; che l’appoggiare le mani al muro e nascondere il volto narrano lo sconforto che viene da un lavoro mal considerato nel suo giusto valore e, insieme, il pudore di farlo valere. Nella scultura di Marina Pepino, se pure c’è protesta è un protestare dimesso; non un grido, ma appena un sussurro, proprio com’era il cianciare delle nostre lavandaie. I ricordi espressionistici, che pure ci sono, soprattutto nel suo non rappresentare mai la società così come essa vuole essere veduta, nel suo non mirare al bello ma all’espressivo, si placano tutti in una composta meditazione sui destini umani, in una malinconica incertezza circa i loro fini. Questa, fra le tante possibili, la chiave di lettura, la più probabilmente vera, dell’opera con cui Marina Pepino inizia ufficialmente la sua carriera di scultrice, facendo dono di un monumento alla sua città.
Incrocio di materiali
Nell’arte di Marina Pepino si assiste a un’operazione interessante (sperimentata in tempi diversi da altri artisti): l’incrocio dei materiali. Uno stipite di porta, un tronco mozzato di albero, un vaso, i frammenti di materiali poveri e abbandonati sono tutti oggetti che si prestano a essere, nella loro opacità e nella loro inerzia, supporti di altri oggetti. Certamente, un vaso resta pur sempre un vaso (un contenitore, un recipiente, qualcosa che accoglie una parte infinitesima dell’universo), ma per l’artista – libera dai conformismi e dagli stereòtipi, attenta ad afferrare la simbologia degli oggetti, gli spazi che vi si aprono attorno e la profondità delle essenze – un vaso sfugge in parte alla sua primitiva funzione per diventare altra cosa: un osservatorio da cui spuntano uno-due volti umani (facce stralunate, ammiccanti nel vuoto, oppure rettili spauriti).
Una guardiola, una torretta di osservazione, un pezzo tarlato di portone, ecco che si fanno sfondo e sostegno, da cui una donna si sporge sul mondo, si affaccia sull’esistente (Incrocio, legno e terracotta, 2014) o si libera a fatica dalla sua matrice (Superstiti, legno e terracotta, 2014).
L’uso plurimo dei materiali (legno, pietra, terracotta, ferro), il loro incrocio, appunto, imprime una cifra stilistica ai lavori di quest’artista.
Ha osservato Alessandra Berruti, che Marina Pepino svela “i segreti del non visto”, ossia una visione reale-e-magica che descrive ciò che è dentro il possibile, racchiuso nelle infinite possibilità del possibile. Chi ha visto le sue opere non ha dimenticato certi scenari immaginari da lei plasmati: quella maschera “veneziana” incuneata nella roccia (dalla biacca traspaiono stupore e paura); o certi stravaganti e giocosi bambolotti che si provano, nella loro opulenza e nelle loro anatomie rimpicciolite alla Botero, a rifare altri tipi umani, a inventarsi altre antropologie.
In lei l’estetica – il momento del bello – non sa disgiungersi dal momento del magico (semplicemente, dal momento dell’invenzione estrosa e alternativa), che è lo scarto dall’esistente, la sfida di un paesaggio immaginario che affronta la realtà pesante e inerte del quotidiano e scioglie gl’impacci fisici del reale e si dichiara per quello che è: un’altra realtà. Un’altra realtà che non corteggia i paesaggi incantati, idilliaci, quelli di un anacronistico romanticismo.
L’ultimo albero (legno, ferro, terracotta e rame, 2014) si pone (tra altri pezzi) come un severo richiamo alla buona ecologia, come anticipazione di un futuro possibile (e purtroppo, probabile), dove le persone (un uomo? una donna?) vivono relegate in un angolo, solitarie e indifese, di fronte ai residui della natura umiliata dalla tecnologia d’assalto (Solitudine, legno e terracotta, 2014).
Una prefigurazione del tutto congruente con il paesaggio apocalittico descritto da Cormac McCarthy in “La strada” (2006), dove un padre e un figlio (persone senza più un nome) percorrono una lunga strada verso il mare, alla ricerca di una improbabile salvezza, su una terra desolata, soffocata dai miasmi e attraversata da bande di predoni.
Quest’artista attinge la sua ispirazione dalle ferite della sua memoria e dall’osservazione delle asprezze dell’attualità, ma le sue sculture non guardano a ritroso: rappresentano simboli di condizioni future. Il tempo presente non è descritto come una nicchia prolungata del passato e un risvolto della memoria, ma piuttosto come un’(in)naturale linea d’evoluzione dei processi in corso e dei disastri inferti alla Madre Terra dai suoi abitanti con allegra incoscienza.
Attimi vitali
Le opere di Marina, grazie alla varietà di temi, tecniche e materiali, bloccano l’attenzione rispolverando la fantasia, fissano attimi vitali che rivivono in chi le guarda.
Marina annota pensieri e storie, leggende e magie. Prende, estrae, solleva dalla Natura materie inusuali e conferisce loro nuove forme, nuovi scopi e significati. Quasi entra nei materiali, ne percorre le cavità, la struttura, i meandri segreti fino all’anima per possederli, amarli.
Si inoltra in composizioni e problematiche con forza e passione antica. Marina è un’artista particolare, quasi spontanea conseguenza di un mondo fatto di terra e di passione, un accordo felice fatto di natura e poesia, di forza e di riflessione.
Alla base della sua ricerca c’è una consapevolezza quasi mistica del proprio ruolo a differenziarsi dalla routine e a ripristinare paradossalmente valori e principi ormai perduti o dimenticati.
Il ritorno nella natura
C’è un percorso circolare, o quasi, nella scultura di Marina Pepino, un andamento che sempre prevede il ritorno come nelle stagioni, nella natura. La sua vocazione monumentale, allontanandosi dal grandioso, fa capo a una concezione cosmica che in se include tutti i contrari e le possibili varianti linguistiche di uno specifico operare.
Fasi di lavoro apparentemente dissimili, segno di un continuo cimentarsi dell’artista, finiscono per ricomporsi in un unico pensiero, chiaro e antico, che si manifesta in un animismo vissuto, resistenza spontanea allo snaturarsi del mondo.
Ciò che costituisce l’istinto dominante in Marina è la materia in tutte le sue potenzialità espressive.
A lungo ha prevalso l’azione del modellare, la sostanza fittile presente in immagini su grande o piccola scala; in seguito ha elaborato il concetto di recupero di pezzi abbandonati, umili o triviali frammenti da assemblare e riportare in vita e in dignità di forma.
La metafora è trasparente e parte dall’esperienza di arteterapia che così profondamente ha segnato il percorso creativo della scultrice: il lavoro di ricostruzione, sempre parziale, di esistenze spezzate, lacerate, dimenticate.
Con il procedimento di montaggio si arriva alla ricomposizione di immagini perdute, quasi armadi o teatrini della memoria, dove l’animazione è affidata per lo più a minuscole figure in terracotta.
Questo stesso materiale è alla base di ieratiche icone femminili, esotiche e arcaiche, che annunciano la ripresa di una figurazione “in grande” da parte dell’artista.
In un’epoca di decrepitezza degli idoli appare del tutto rigenerante questo attingere a fonti remote, primordiali, quasi un canto pagano e accorato alla natura.
Il discorso plastico di Marina oggi si muove in questo solco, volto a una lettura analitica di alberi e di fiori attraverso la resa delle loro impronte. L’idea della traccia lasciata, negativo della realtà ma inscindibilmente legato ad essa, nel prefigurare una possibile scomparsa, ne predispone insieme le condizioni di salvezza.
Fuori dal tempo
C’è qualcosa nelle opere di Marina, che rimanda al lavoro e, quindi, all’energia; e sappiamo bene che rapporti intercorrano tra i due concetti. Marina è una scultrice: parte dalle grandi masse che formano i corpi, le sonda come morbidezza, come capacità di essere “presenti” all’ambiente e al contempo appartenere al passato.
Il lavoro delle terre(cotte), si sposta direttamente in un prodotto della terra: il gurin (vimine). Un elemento minimale di natura (assemblato secondo una pratica artigianale ormai scomparsa) diviene diaframma spaziale o corpo-albero che disegna se stesso e perciò si mostra nella sua varietà di segno ovvero nelle sue verità.
C’è qualcosa nei lavori di Marina, di primitivo, di fuori dal tempo, che rende il suo fare parte di una felice-alterità rispetto agli eventi delle “scene contemporanee” dell’arte. C’è la sapienza contadina dell’essere parte della natura e degli eventi ma c’è anche la consapevolezza del proprio tempo, della propria socialità che non va confusa col cileccare mediatico o sociologico ma ricercata nel suo modo di interagire pensando l’artista come intermediario dell’anima che coltiva la comunicazione come ruolo prioritario.
C’è qualcosa nei lavori di marina, che arriva dalla natura per essere guardato perché è stato visto, raccolto, portato ad altro viaggio, a nuova vita… iniettato di linfa culturale, si erge davanti a noi nella sua cruda immagine totemica.
Nei lavori di marina c’è qualcosa che appartiene al suo tempo ed è presente al nostro, come se fosse sempre esistito e mai ce ne fossimo accorti, come se il tempo non esistesse e nel giardino dell’amore ci conducesse lieve al presente per renderci vivi… presenti… partecipi all’avventura della vita.