Giancarlo Giordano - Neurocromie

Neurocromie. Ai confini del sé perduto

Mostra di Giancarlo Giordano
A cura di Anna Cavallera
1- 19 Settembre 2023
Palazzo Banca d’Alba, Via Cavour 4 – Alba

Mostra di Giancarlo Giordano, a cura di Anna Cavallera

Inaugurazione

Venerdì 1 settembre 2023, ore 18,30

Palazzo Banca d’Alba, Via Cavour 4, Alba

Si potrà visitare la Mostra nei seguenti orari:

Martedì, Giovedì e Venerdì: 15.00 – 19.30

Sabato e Domenica: 10.00 -12.30 / 15.00 – 19.30

Vai al sito Banca d’Alba.

Quando la follia, che tanto quanto la ragione abita l’uomo, prende il sopravvento, crollano i confini individuali e sociali e si spalancano neri regni insondabili, dove il male dilaga e tutto è plausibile, compresa la morte. Perduto il timone, l’uomo è solo, in balia di sé stesso e dei propri demoni.

La vasta produzione espressiva di Giancarlo Giordano, della quale questa nuova mostra albese presenta una ventina di dipinti selezionati e realizzati nel corso degli ultimi anni, ci traghetta in un universo parallelo permeato dal dolore, dove la persona, seppur vittima di privazioni e segregazioni, grazie all’opera di redenzione pittorica realizzata dall’artista, ritrova una propria sacra dimensione spirituale.

Giordano, nato a Racconigi nel 1940, ha incontrato l’alienazione mentale acclamata o presunta e l’ha sperimentata, suo malgrado, a partire dal 1969 e per ventitré anni della sua vita, in veste di infermiere presso l’ospedale psichiatrico di Racconigi.

Uno dei tanti “recinti” in cui, ieri come oggi, l’ordinamento giuridico ha spesso nascosto e legittimato torture, abusi e violazioni dei diritti fondamentali, in nome della salvaguardia di un presunto ordine sociale. D’altronde, tutto ciò che è irrazionale ed incontrollabile genera paura, un pericolo che, in quanto tale, dev’essere condannato ed esiliato dallo sguardo dalla cosiddetta società civile.

Giorno dopo giorno l’artista ha imparato a riconoscere i linguaggi, le sembianze, i solchi indelebili che il manifestarsi della follia, una condizione data e non scelta, o il disagio mentale causato dalla reclusione coatta, aveva impresso nell’uomo, trasfigurandone lo spirito, la carne ed i volti.

Tra i pazienti dei quali si prendeva cura, pochi erano affetti da conclamate patologie mentali, mentre abbondavano le persone ritenute socialmente scomode, come i dissidenti, i reduci della Seconda guerra mondiale, gli omosessuali, gli alcolisti o i familiari indesiderati. Vittime della miseria e della solitudine che, una volta private dei diritti civili ed iscritte nel casellario penale, finivano per essere custodite nei manicomi, dove entravano a far parte di una società “altra”, parallela ed emarginata, imprigionata senza appello dall’uomo e prigioniera della propria mente, rinchiusa tra le sbarre di stanzoni asettici, legata ad un letto, tra grida e rumori ossessivi, cantilene d’orrore e il fetore dei corpi abbandonati.

Private della propria identità, della stessa coscienza di esistere.

Queste immagini spettrali, sospese in un silenzio innaturale, han guidato la mano dell’artista e il suo profondo sentire, tanto da diventare iconografia e paradigma del suo personalissimo fare pittorico. Ancora oggi, come Giordano racconta con sguardo cupo, quei fantasmi lo perseguitano.

Bussano al suo inconscio e s’impongono nel fare espressivo, traducendosi in testimonianze artistiche di matrice neo-espressionista senza pari, dove il vigore del segno duro, spesso, impetuoso e steso di getto, come già fu per Rouault e per molti pittori Fauves, circoscrive le fattezze aspre e frange il campo pittorico attraverso lumeggiature e cromatismi velati. Dalle varie gamme dei neri, rubati dagli abissi dell’oblio, il pittore passa alle tonalità verdi, fredde e bluastre, alle gradazioni dei grigi bituminosi e alle tonalità rosee e pallide che delineano una vita ancora palpitante, tra le membra scarne in attesa di una morte che s’attarda a farsi liberazione.

E poi i ritratti. Carlino, un piccolo oligofrenico che borbottava tutto il tempo, grazie al quale l’artista diventerà uno dei precursori dell’arte-terapia insieme alla compagna e artista Marina Pepino, ma anche Carla, trasfigurata dall’ipotiroidismo, ed Enrico, nelle sue posture raccolte ed eleganti. Accanto a queste piccole storie, altri volti illustri narrano altrettante grandi storie di sofferenza, umanità e resistenza, come quelle di Alda Merini, di Edith Bruke o Beppe Fenoglio. Persone, vissuti e moniti impressi in uno sguardo che travalica la tela e fa breccia nel cuore.

Olii di grande formato, acrilici, acquerelli e chine su tela, tavola o su carta, ma anche una moltitudine di sculture in terracotta smaltata di piccolo formato, scuotono lo sguardo dell’osservatore restituendo dal baratro dell’oblio uomini dalle fattezze grossolane, donne deturpate nella loro femminilità e bambini aggrappati ai corpi legnosi delle madri. Le espressioni sono pervase dalle disperazione, gli sguardi obnubilati, le membra spigolose, deformate nelle pose più spontanee e indifese, schiacciate dal peso di una vita ormai insostenibile.

Giordano definisce i confini della frantumazione psichica e fisica degli internati e ne restituisce, o ne costruisce ex novo, una nuova anatomia spirituale e identitaria, servendosi di colori graffianti.

John Locke nel suo Saggio sull’intelletto umano è forse stato il primo a teorizzare il concetto di identità personale, una percezione che affiorava quando l’idea di anima era in crisi. Ma se la follia si ripercuote sulla mente e nel corpo, per l’anima c’è una salvezza. Ce lo dimostra l’arte di Giordano e la ritroviamo in quegli sguardi assenti, privi di riverberi vitali che hanno attraversato l’orrore, profondi e insondabili come i suoi che non fanno sconti e ancora chiedono libertà, giustizia, amore.

Identità perdute o, meglio, rubate dall’uomo. Non più uomini o donne, ma simulacri terreni abitati o, meglio, ferocemente sconquassati, da un dolore antico, un vento incontrollabile e misterioso che dilagava nelle menti e ricamava storie di smarrimento e abbandono. Cronache intime, sofferenze e ricordi che l’artista ha raccolto e conosce bene, ma che ha scelto di non raccontare per salvaguardare la dignità di quel popolo confinato. E nel tentativo – forse inconscio – di emancipare gli spettri che ancora alloggiano nella sua coscienza, il pittore ci parla di sé, della sua identità personale, quella di un uomo riservato e di poche parole che non sarà mai isola e che, a differenza d’altri, ha avuto il coraggio di opporsi all’ingiustizia di un sistema coercitivo che alla cura ha sostituito il rifiuto e la reclusione.

La sua testimonianza civile, improrogabilmente tradotta in un fare artistico al quale non può sottrarsi ha assunto il valore di pittura militante: una pittura del dissenso e della denuncia che lo distingue dal panorama dei numerosi artisti che, nel corso dei secoli, hanno affrontato a vario titolo questo tema, non solo per lo stile e le visioni, quanto per l’approccio.

I capolavori visivi realizzati, fra i molti, da grandi maestri quali Géricault, ma anche di William Blake, Franz Messershmidt, o Antonio Ligabue, artisti tutti avvinti dalla dé-raison di foucaltiana memoria, ci dimostrano come il sonno della ragione, mirabilmente descritto da Goya, oltre a generare mostri e aberranti visioni della realtà, può condurre a opere d’arte d’incomparabile bellezza. D’altronde la perla nasce dal difetto d’una conchiglia, teorizzava Jaspers nel suo Genio e Follia agli inizi degli anni Venti del Novecento.

«Con un quadro vorrei esprimere qualcosa di commovente come una musica. Vorrei dipingere uomini e donne con un non so che di eterno, di cui un tempo era simbolo l’aureola» scriveva Van Gogh dopo aver dipinto, poco prima dell’alba La notte stellata, l’immagine diretta di ciò che poteva vedere dalla finestra della sua stanza nel manicomio a Saint Remy de Provence. Un’opera di straordinaria maestà che con le sue pennellate spiraliformi racconta l’intrico frastagliato e disperato dei suoi pensieri che si placano nelle linee, nel colore e nella luce.

A differenza del Maestro post-impressionista, Giordano ha accolto un dolore ed una follia altrui senza farsene travolgere, ma facendosene carico, governandoli e trasformandoli in risorsa, in purissima arte. Un linguaggio partecipato e colmo di una dolente pietà nei confronti di quei “sé perduti” che, come gemiti inespressi, ancora oggi vagolano, errano e fuggono dai corridoi degli ex ospedali psichiatrici, dai manicomi giudiziari, dalle patrie galere, dai lager, dai centri di detenzione temporanea o dalle città assediate dalla guerra, nell’iterato desiderio di rompere le catene e fuggire, di partire per ritrovare la libertà, la salvezza.

Lo stesso desiderio che spingeva Giaculin a scavalcare i muri ricoperti d’edera del manicomio per risalire a piedi il Maira, nella speranza di tornare a casa, o Roberto, un altro paziente del Chiarugi che correva a perdifiato lungo la collina di Priero per ritrovare una famiglia che l’aveva abbandonato. E così fu per Aldo, figlio di Palmiro Togliatti, ritrovato, dopo giorni di vagabondaggio, al porto le Le Havre, pronto ad imbarcarsi forse per l’America.

Allontanarsi, mettersi in viaggio con la speranza in tasca, ricercare una nuova rotta, un sentiero che possa restituire luoghi fatti di ricordi d’amore. Il sogno di tornare a casa, di trovare o ritrovare sé stessi.

Anna Cavallera