Recensioni

Forse la vita, forse molto di più

di Marco Neirotti

[…] La mia lingua non poteva esprimere ciò che mi si agitava dentro e il villaggio mi prese per scemo.

È scritto su una lapide di Spoon River, la stupenda antologia di Edgar Lee Masters.

Noi siamo il villaggio e Giordano ce lo ricorda con le sue pennellate rabbiose e dolci.

Un uomo stringe una ciotola (forse la vita, forse molto di più), un altro offre polsi e palme aperte (sottomissione in cambio di aiuto?). Poi finestroni e inferriate, altri sguardi persi in un destino scolpito da secoli. Lentamente il colore muta: il grigio, il pallore delle tinte cede a pennellate dalla violenza antica, conficcata dal tempo nei cuori dei protagonisti.

Marco Neirotti

I graffi dell’anima

di Giorgio Barberis

Giordano, autodidatta di formazione, apprezzato pittore di lungo corso, moderno interprete di ataviche tematiche, si rivela, con i suoi lavori, un realista del sogno. Infatti se un elemento di realismo molto forte compare nella sua espressione e segna la durezza della realtà poi si aggiunge il sogno, che è un sogno brutto e bello, tanto da portare a definire Giancarlo un surrealista padano ed accostarlo a quel genio assoluto, spigoloso ed altrettanto padano che è stato Cosmè Tura.

Tutto questo per dire che si tratta di un artista di grande cultura, di grande sensibilità e di grande autonomia: qualunque cosa dipinga, è un uomo unico che pensa prima di dipingere e la sua creazione diventa una conseguenza del pensiero.

Sono dei trattati, i suoi dipinti, in cui c’è un’idea: è quindi pittura filosofica, pittura surrealista, perché sempre c’è nel sogno un pensiero, che è un pensiero libertario. L ‘uomo, la donna, eros e tanathos, il sociale, la natura, a volte l’incommensurabile e il divino sono le tematiche predilette dell’autore il quale, prima di essere un affabulatore di immagini avvicinabili a interpretazioni munchiane o noldiane, è soprattutto l’artefice di un segno e di una tavolozza la cui espressività si fa narrazione concretamente ancorata a una realtà del tutto riconoscibile.

La sua qualità primaria sta nel saper annotare le situazioni che solitamente sfuggono a uno sguardo meno attento. Il tratto pittorico non gioca tanto sulla precisione quanto sull’allusività e definisce le fisionomie grazie a un gioco di impressioni cromatiche e di segni incisivi. Le figure si stagliano in movimenti semplici, che rientrano in un ordine classicamente composto, ma che sembrano rivelare le tracce di un deragliamento psicologico, come se l’artista volesse denunciare un’ira atavica, una rabbia sommessa priva di ipotesi salvifiche.

Restituita alla vita in forza di un colore fluido ma corposo, la sua umanità diventa ombrosa, impetuosa, sull’orlo di una crisi si direbbe, ma controllata da una ferma razionalità. Le sue composizioni figurali sono avvolte in silenzi enigmatici, e tuttavia vi spira un’energia vitale che nega qualsiasi implicazione metafisica. Dinamismo visivo, quindi, che poggia sulla violenza espressiva del segno e del colore per denotare le fisionomie e i corpi, ma la cui materia cromatica lascia lo spazio all’indefinitezza che suggerisce l’idea di una solitudine interiore palesemente denunciata ma anche amata.

Giorgio Barberis

Intensità di sguardi

di Ida Isoardi

Guai a quei tempi in cui l’arte non rende
malsicura la vita e davanti all’abisso che
separa l’artista dall’uomo vengono le vertigini
all’artista e non all’uomo!
Karl Kraus

Le opere di Giancarlo Giordano centrano un bersaglio sempre più difficile da colpire: la verità.

Abbiamo a che fare con un artista assolutamente particolare sia per formazione che per espressività. Egli ha lavorato a lungo presso l’Ospedale Psichiatrico di Racconigi e appare evidente, nella sua pittura, l’eco mai sopita di quell’esperienza emotivamente estrema, in grado di incidere su un’intera vita e di connotarne il carattere e la visione del mondo.

È chiaro che una vicenda esistenziale di questo genere, vissuta come lavoro quotidiano e con totale consapevolezza oltre che, ovviamente, con sensibilità e talento nativo, abbia potuto assorbire  e oltrepassare, in un sol colpo, tutte le accademie e i modelli che il tempo proponeva all’artista.

Con ciò non si vuole affermare che Giordano non abbia avuto importanti contatti e riferimenti culturali nell’ambiente che lo circondava, ma la forza del suo segno, gesto coraggioso di scavo negli abissi dell’anima, si è spinto assai oltre, attingendo un senso di universale sofferenza.

Il dramma e la tragedia dell’umanità sono i compagni di viaggio del suo operare. Lotta, spesso perdente, e fato, inesorabile e irreversibile, vivono nelle immagini dell’uomo ma altrettanto nei colori, nelle pennellate decise, a volte sfatte, nei paesaggi spazzati da un vento impetuoso, violento. In tale contesto sarebbe però assai improprio parlare di realismo soprattutto perché il pittore non colloca i suoi personaggi nella storia, bensì nell’antimondo dove si consumano eventi che ben poco hanno da spartire con il quotidiano della “gente” ed emergono scenari che soltanto un’eccezionale esperienza interiore può materializzare in immagine.

Se è possibile istituire un parallelo tra i lavori di Giordano e quelli di altri artisti, bisogna spingersi oltre l’Italia, in direzione di quell’espressionismo nordico che non fu un vero movimento, come le avanguardie, ma piuttosto una qualità del pensiero, una categoria metastorica, un processo poetico che, partendo dal soggetto (autore) va a imprimere di sé l’oggetto (realtà esterna) secondo la verità còlta dall’artista. Quest’ultima non coincide affatto con il mondo cosiddetto reale ma si avvale di tratti e colori in funzione esclusivamente espressiva.

Vengono alla mente nomi che appartengono alla storia del Novecento, in particolare Emil Nolde. Come il grande pittore tedesco, nato in terra di confine con la Danimarca e noto con il nome del suo villaggio (Nolde, appunto), Giordano esclude a priori qualsiasi visione edulcorata dell’umanità per caricare l’immagine di quella negatività notturna e senza veli che accomuna, ma in maniera opposta, i privilegiati e i reietti. Corruzione e dolore sono infatti i due poli entro cui si agita la sua poetica.

È imbarazzante attribuire la corruzione agli umili, agli esclusi, così come il dolore ai vincenti, ai dominatori; ma, nel primo caso, si tratta di disfacimento dell’essere, rinuncia, punto estremo di sofferenza; nel secondo, di produzione continua di dolore e trauma attraverso i meccanismi e le leggi di un’illimitata conservazione del potere.

Di conseguenza, la materia pittorica, volutamente informe ma potentemente dominata dall’autore, giunge sino al grottesco, come è possibile ravvisare nello Spaventapasseri, una sorta di Cristo crocifisso tutt’altro che trionfante sulla morte, qui addirittura delegata all’inanimato fantoccio.

C’è una vita che scorre sotto le specie dello straniamento dal mondo e che vibra in modo quasi tangibile nell’interrogare chi guarda queste forme. Allo stesso modo vi è una sottesa condanna per quanto l’iniquità, unita all’ignoranza, coltiva di indifferenza verso gli “altri”.

Nulla può esprimere tali suggestioni con maggior forza dell’Autoritratto. L’artista fa confluire in esso le emozioni, le insondabilità della psiche, i fantasmi che ciascuno di noi porta in sé, ma pochi, pochissimi, riescono a far affiorare con tanta chiarezza.

Nel saggio “Narciso infranto” di Alberto Boatto, si legge: …Se mi chiedo “chi sono io?”, un interrogativo di portata assai più compromettente del “chi sei tu?”, la domanda scavalca l’incuriosita attenzione alla fisionomia, ai tratti psicosomatici del volto, all’involucro fisico del corpo. La domanda scava bene in profondità fino a toccare il retroterra nascosto dell’uomo…

Allo stesso modo le figure ritratte da Giancarlo ci affrontano con gli stessi gravi, insistenti quesiti, dove la replica è incerta e sempre insufficiente.

Il dolore umano, come la follia – dolore cristallizzato in una dimensione “altra”, rifugio inviolabile di separazione dal mondo – resta un totale mistero e soltanto la coscienza di un comune destino e la pietas (non necessariamente cristiana) unite al rispetto per il tormento di ognuno, possono spezzare il ghiaccio che paralizza i contatti tra i viventi.

La pittura di Giordano fa breccia in questo nodo cruciale dell’esistenza, portando in superficie i segni come ferite e deliri.

Ida Isoardi

Giancarlo Giordano tra l’inferno e il vero amore

di Giovanni Tesio

C’è un Lager nella sua mente e nella sua memoria, un Lager che non cessa di abitarlo e possederlo. Passano gli anni, ma la memoria non recede e la ricerca va in cerca della sua cancellazione.
È nel bitume la forza della negazione che dice, che parla, e che – urlando – tace. Un groviglio di contraddizioni in atto, che vedi nei gesti, nelle posture, nell’orrore stupefatto dei volti sghembi, squilibrati, in cui vorticano ottusi i neri degli occhi, cancellati.

L’artista è Giordano, che se non vivessimo in un mondo di passioni tristi e di critica troppo mentale, e se lui – per suo conto – non fosse l’uomo che vive distante dalla fabbrica della fama, dovrebbe avere più giusti e meritati riconoscimenti critici.

Se per un autore la ricerca dello stile è tutto, ciò significa che l’espressione – l’unica espressione – deve coincidere con la morale del “messaggio” (parola di cui possiamo ben tornare a proporre l’importanza). Non il cosiddetto “contenuto”, beninteso, che non è tutto, ma la fusione del contenuto nella sua voce, nel suo segno.
Un segno che a sua volta fonde in sé morale ed estetica, due specificità necessariamente congruenti, capaci di penetrare nella corteccia di un qualsiasi mondo per sprigionarne (per scarcerarne) – viaggiando in profondità – le risonanze più abissali.

Giordano viene da una chiamata che ha la sua storia, ma che sembra avvenuta fuori dalla storia, dalla storia tanto di un paese della provincia piemontese quanto di una famiglia di dignitosa povertà ma non priva di pur modesti stimoli culturali alla svolta del secondo dopoguerra.
In quel luogo e in quella famiglia c’è un bambino che fa il panettiere e poi un ragazzo che fa il fabbro, ma che intanto matura dentro di sé la passione dei colori, affascinato da certe immagini di artisti che è una rivista come “Famiglia Cristiana” – rivista che erano le parrocchie a diffondere e che non mancava mai nelle case cattoliche – a proporre ai suoi lettori.
Con occhio stregato e con mano fertile – la stessa con cui ad un tempo Giordano accudisce la saggezza dell’orto e la saldatura delle cisterne, che negli anni ormai del boom economico servono al riscaldamento delle case e dei palazzi – quel ragazzo nel frattempo s’è fatto adulto e ha tentato e ritentato, provato e riprovato, copiando immagini, accostando colori, dando forma sempre più convinta alla realtà delle sue impressioni, della sua forte e fiera emotività.

Un processo di cui è forse impossibile, oggi, rintracciare distintamente le tappe, ma che vale come un apprendistato selvaggio, come l’esercizio accanito (c’est Venus toute entière à sa proie attachée…) di un autodidatta che inventa il suo percorso senza altri appoggi che la sua passione, la sua tenacia, il suo fuoco interiore.

Giordano era e resta un lupo solitario, uno di quelli che non appartengono a consorzi, a comitive e tanto meno a gruppi o gruppuscoli di mutuo sostegno. Lui, solo nel farsi, resta solo nel proporsi a se stesso e ad altrui, capisca chi può, e altro non cercare.

Nella sua vita c’è però un passaggio cruciale, un punto decisivo che – paradossalmente – dà un senso al tutto. E questo passaggio è un viaggio (un attraversamento) nella terra desolata del “manicomio”, come sempre s’è chiamata quell’“istituzione totale” prima che qualcuno riuscisse a immaginarne un altro nome più politicamente corretto, insieme con un’altra e diversa dimensione finalmente più umana: a partire dalla rivoluzione di Basaglia, che alla fine si è affermata non senza traumatici revirement, o tentativi di ritorno, alimentati da disonesti interessi di parte.

È il manicomio, insomma, dove Giordano entra come infermiere nel 1969, a convertire la sua vita in un destino. Da lì – luogo di dolori e di orrori – passa un’esistenza che si manifesta a se stessa e passa un orientamento espressivo che – pur in tutti i suoi mutamenti di tempo e in tutte le sue metamorfosi di tratto – si mantiene a tutt’oggi costante.
È in quella discesa agli inferi la cifra che detta (il dantesco “dittare”), la stravolgente carità (umana e artistica) che pulsa e che urge, ossia che si rende davvero necessaria, essenziale.

Il viaggio di Giordano non è né più né meno diverso – alla risultante – del viaggio che Levi compie in Lager.
Si rifletta pure sulle proporzioni. Diverse, d’accordo, le condizioni, perché Giordano è un addetto del sistema, quantunque illuminato, mentre Levi è una vittima sul quotidiano crinale di una totale destituzione. Né sono al tutto ed evidentemente identiche le forze in campo e le modalità specifiche.
Ma, quanto a destituzione, quale uomo sarà mai il malato che viene sottoposto alle terapie più violente (l’elettroshock, la malarioterapia, l’insulinoterapia…), a pratiche sadiche, reparti come incubi, promiscuità e indecenza, procedure insensate, la nessuna considerazione di corpi in pena, di anime votate a una sorta di vera e propria dannazione feto-fecale, la negazione dell’umano (Se questo è un uomo…), l’abominio della desolazione.

L’incontro è decisivo. E da qui comincia, per così dire, la vera storia di un artista, la svolta che diventa un’ossessione. Art brut? Sarà bene non confondere, perché se l’arte è sempre e in ogni caso “terapeutica” (perché risarcisce o perlomeno va incontro al risarcimento della ferita da cui sempre procede), resta che Giordano viene da una scuola che s’è fatto, sì, da sé, ma che ha i suoi numi tutelari, i suoi maestri.

Lunga sosta al Goya delle “pinturas negras”, impressionanti per espressionismo manifesto: El Santo Oficio, ad esempio con quei volti in prima vista, cupi, carbonchiosi, deformi. Oppure l’Aquelarre o El gran cabrón? Volti in tumulto, stupefatti, e il capro in posa profetica, annunziante. O, ancora, i Dos vijos comiendo (un teschio e una strega) fino a La romeria de San Isidro (cupezze, desolazioni, ammassi inquietanti). Ma poi via via Rouault, Bacon, fino a Basquiat.

Maestri e compagni che magari Giordano è pronto a contraddire, perché non c’è vero maestro che un qualsiasi allievo non aspiri – e di necessità – ad attraversare, per diventare il più possibile se stesso e trovare lo stile (l’ho detto fin da principio) che solum è suo.
Ma maestri e compagni che lungi dal fare di lui un epigono, ne fanno un autore.

Giordano non distribuisce conforti o facili consolazioni. Anche perché il suo segno tende alla deformazione non per denuncia ma per consanguineità.
In quelle sue figure sempre più bituminose, che assumono spesso la postura dell’auto-crocifissione, rintraccio i segni di un’appartenenza che è fraterna e che non proviene nemmeno più dal manicomio come luogo deputato e denunciato, ma dalla più profonda matrice di un’umanità che nell’orrore si specchia, e che pronuncia la sua inesorabile responsabilità.
Nel segno della sua arte, Giordano ci parla dunque – energia del suo stile – di un’ossessione che è memoria, ossia accoglienza.

Se nessun uomo dovrebbe essere chiamato pazzo, come ci ricorda Heinrich Böll citando il romanzo di Salinger, Alzate l’architrave carpentieri, in una delle sue Lezioni francofortesi, questo è lo spirito della pittura di Giordano.
Una pittura profondamente umana. Accogliente e “imperdonabile” come solo sa essere il vero amore.

Giovanni Tesio

Uno strano corteo di figure

di Tommaso Salzotti

Quelle figure che le mani di Giancarlo Giordano hanno modellato, quel lungo corteo di personaggi, sono nostri vicini di casa: li riconosciamo dagli sguardi obliqui, dalle fisionomie stravolte. Un paese lillipuziano: un paese popolato di contadini colti sul lavoro; di vignaioli; di falegnami in bottega (bene in vista: tenaglie, martello e pialla); di madri che allattano; di donne che gridano la loro disperazione con le braccia alzate al cielo; o anche un pittore di strada e sullo sfondo il pilone devozionale appena affrescato… Un paese popolato d’individui che ci interpellano con i loro occhi assenti o con una muta e occulta disperazione. Questi personaggi così ordinari – così quotidiani – annunciano la loro irriducibile estraneità al nostro mondo, ci appaiono personaggi di un mondo lontano; diciamo: di un mondo parallelo al nostro: corpi piegati e avviliti, volti deformi, sguardi imploranti compassione e tenerezza. Quelle figure hanno impresso sui loro volti il marchio delle loro diversità o delle loro devianze o delle loro sconfitte.

Giancarlo Giordano ha dato – insieme ad altri artisti, grandi e piccoli – visibilità figurativa a una società popolata di vinti, di perdenti, di personaggi che non hanno da offrire agli altri nient’altro che le loro “catene” e il marchio delle loro diversità (quelle diversità che gli antichi greci definivano stìgmatos, “stimmate”). Le sue statuette (quelle che io chiamo “figure”) potrebbero rientrare nel catalogo del dolore che avvilisce e uccide, secondo il verso del più grande poeta italiano del Novecento:

Spesso il male di vivere ho incontrato
era il rivo strozzato che gorgoglia
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Giancarlo Giordano non poteva non ammirare in Georges Rouault “la capacità di descrivere la sofferenza” (come egli mi disse un giorno). Nel suo Miserere i temi dominanti sono la protesta per la miseria, l’ingiustizia, la guerra, la morte, ma anche il riconoscimento dell’impotenza dell’uomo davanti al male e al dolore: “Quello che ho fatto – confessava Rouault – è un grido nella notte, un singhiozzo soffocato, un riso strozzato. Io sono l’amico silenzioso di quelli che soffrono nel solco profondo”.

Le piccole dimensioni delle figure di Giancarlo Giordano non dovrebbero indurci a prestar loro una scarsa attenzione critica, quasi fossero prodotti di un’attività minore. Esse sono semmai prove di un’alternanza stilistica (oltre che delle icone, dei temi centrali della sua visione della società). Infatti, le statuette dell’arte cicladica – una per tutte, Il suonatore di lira, quelle per intenderci esplorate dall’archeologo greco Christos Tsountas e dalla British School di Atene – non sono a nessun titolo un’arte minore.

La deformazione di questi personaggi deriva da un ponderatissimo studio delle loro fisionomie; essendo Giancarlo Giordano lontanissimo dall’artista naif o da quei pittori che per essere autodidatti pretendono d’imparare soltanto da se stessi e preservare da influssi esterni la loro ispirazione… Queste figure sbocciano da una lunga educazione pittorica maturata con la frequentazione attenta ed emozionata di artisti contemporanei. Qualche nome: Rouault, Permeke, Käthe Schmidt Kollwitz (chi può dimenticare il suo Donna con bambino morto?), Lucien Freud, Bacon, Sironi, Giovanni Testori, Lorenzo Viani il cantore dei vàgeri versiliesi (vagabondi e “uomini di bordo rotti a tutti i perigli e a tutte le navigazioni”…), Munch, Chagall, Markus Lüperz e altri artisti in cui la sofferenza personale si è trasfigurata nell’arte.

Un’osservazione di Anselm Kiefer, nella sua illuminante semplificazione, individua la qualità essenziale di una parte rilevante dell’arte contemporanea (figure, ritratti, nature morte):

“L’arte è il modo per rendere la realtà evidente. L’arte è cinica, mostra la negatività del mondo, è la sua prima condanna”.

Allo sguardo freddo della disillusione (Franz Marc: “un dèmone ci concede di vedere tra le fessure del mondo…”), la realtà quotidiana si arrende, mostra la sua scorza dura, le sue grinze indelebili e al di sotto s’intravedono i “sobborghi dell’anima”, il fondo oscuro dell’esistenza, l’io profondo, il coagulo delle emozioni inespresse. Il disincanto dell’artista (il suo sguardo non conforme e non convenzionale) predispone il suo contesto operativo: i suoi maestri, le sue citazioni, i suoi strumenti e i suoi stilemi.

Nell’orizzonte della sua poetica (una poetica della protesta) si è via via imposto come predominante l’influsso del movimento espressionista di Dresda (die Brücke,“il Ponte”: Ernst Ludwig Kirchner, Erich Heckel, Karl Schmidt-Rottluff), con i suoi capisaldi estetici: la “dialettica linea-superficie” (forme angolose, aguzze, allusive alla scultura negra e medioevale), ossia verso l’astrattizzazione deformatrice delle forme naturali. I personaggi della Notte Santa (2011) e le figure modellate “del corteo” presentano un’impressionante rassomiglianza (forse all’insaputa dello stesso artista) con La via di Emmaus (1918) di Karl Schmidt-Rottluff, a riprova di una sostanziale identità estetica.

L’astrattizzazione sarebbe dunque alla base della poetica della protesta; e non a caso Kandinskij aveva teorizzato nei primi anni del Novecento che “quando più questo mondo diventa spaventoso (com’è appunto il mondo di oggi) tanto più l’arte diventa astratta, mentre un mondo felice crea un’arte realistica”.

La sua arte si appoggia sul senso del suo vissuto, un passato segnato dall’incontro con gli “ultimi”, i relitti umani dell’istituzione psichiatrica, esistenze rattrappite dal disagio sociale e da un’ospedalizzazione alienante. In lui il nucleo non risolto della sua ventennale esperienza di lavoro – a contatto quotidiano con i malati mentali e con la loro disgregante segregazione – resta un dato fondamentale, irriducibile, un presupposto latente nel suo modo pittorico di aggredire gli oggetti di partenza (i ritratti, le nature morte, le sensazioni, i sentimenti).

Egli – come Kirchner e come altri – si libera del “bello” ipocrita, convenzionale, e lo restituisce con colori simbolici, improbabili, con linee dure e spezzate, con figure umane deformate e con scorci naturalistici lontani dall’idillio. I due straordinari paesaggi del 2016 (Casa in collina e Dopo il temporale, cm 100 x cm 120) non hanno nulla di rassicurante: una landa in burrasca che prende toni e umori “romantici”, scenari di desolazione, il sublime della natura (una natura che esplode e imprime all’uomo un travolgente senso di solitudine). Amo pensare che i due acrilici avrebbero meritato il consenso o l’attenzione del grande Caspar David Friedrich.

Egli espande la materia della rappresentazione nel tentativo di farne una rappresentazione ultra-individuale (oltre i confini della sua esperienza personale). Il pittore, quando non si rifugia nelle scorciatoie dello stereòtipo, tenta – in una specie di sfida con il supporto (tela, lastra, foglio bianco, tavola di legno, creta) e con i materiali – di liberare la sua visione, di superare se stesso e la propria finitezza (una sfida a rischio di fallimento). Giancarlo Giordano ha sempre riconosciuto il lavoro artistico nella sua essenza anche come un campo di sfida con se stesso: un corpo a corpo con un modello di rappresentazione che non riesce a essere un modello definitivo, sempre al di sotto delle richieste di quel giudice che è dentro di noi, un giudice intransigente che spinge l’artista verso le regioni inesplorate della libertà, verso un altrove, verso lontani punti di fuga, verso qualcosa d’inafferrabile (ancora Montale):

[…] perché tutte le immagini portano scritto:
«più in là». Ma ciò che è “dentro” l’anima di Giancarlo Giordano lo può sapere soltanto lui: è a lui che dovremmo chiederlo nella certezza che forse lui non vorrà, o non saprà, farcelo sapere.

Tommaso Salzotti

Una carica di partecipazione

di Michele Berra

Una pittura indubbiamente sofferta, perché vissuta, nella quale c’è la solitudine, la rassegnazione dell’uomo prigioniero oltre che di un ambiente tetro anche del proprio destino. C’è anche una carica di partecipazione espressa attraverso una visione espressionistica che evidenzia un mondo di ansie.

Michele Berra

Le nostre origini, povertà ed essenze

di Sandra Berruti

La bellezza delle opere di Giancarlo Giordano non sta solo nelle proporzioni e nelle armonie dei corpi e dei colori, ma soprattutto nella rappresentazione della realtà, a volte serena e distesa, a volte deforme e contorta. Le sue figure vanno “sentite” più che “viste”; sono parlanti nel senso che raccontano il loro soggetto e ci legano a questo in un modo che va oltre la semplice fruizione visiva, coinvolgendo altri canali sensoriali.

In ogni sua figura c’è un’impronta umana che rivive con i suoi momenti belli o brutti ma reali, vivi da sempre e per sempre.

I corpi, i volti, lo spazio intorno sono fotografie di emozioni; sono spazio e atomo senza terra e senza cielo, non esistono fisicamente, ma evocano la nostra origine, le nostre povertà e la nostra essenza.

Anche le sue nature morte sono materia che si muove come il tempo che passa.

Con la stessa velocità del lampo rimangono le sue pennellate fatte di gesti forti e graffianti.

Sandra Berruti

Giancarlo Giordano, la mani in pasta nell’abisso umano

di Francesco Occhetto

Non c’è volta che, contemplando un’opera di Giancarlo Giordano, non mi sovvenga alla mente e al cuore quanto affermò Antonin Artaud a proposito dell’arte di Van Gogh: «nessuno ha mai scritto, dipinto, scolpito, modellato, costruito o inventato se non per uscire letteralmente dall’inferno». Perché è questo che, di primo acchito, emerge prepotentemente dai suoi lavori, siano essi pittorici o scultorei: un inferno vivo che tuttavia riporta anche sfumature di dolcezza e commossa misericordia, uno scenario tutto pervaso da «sua maestà il dolore», come direbbe Philip Roth, che sa però servirsene per offrire al mondo squarci di speranza. Un dolore abitato da fantasmi reali appartenenti ormai soltanto più al prisma dell’oblio e della rimembranza, fatto di volti che tornano ad affacciarsi al cono di luce dell’oggi da un’indicibile notte di memoria e di tormento, a simbolo e ricordo delle troppe anime innocenti ricoperte per sempre dal cieco macigno della storia umana, senza scampo né possibilità d’appello.

L’intento che più di tutti appare preminente in Giordano, artista e uomo la cui parabola esistenziale e creativa andrebbe senz’altro rivalutata e portata agli onori, testimone in prima persona del dramma sociale e politico che è stata la lunga esistenza dei manicomi in Italia, sembra esser quello di farsi carico, attraverso un sentire e un operare artistico di necessità quasi primitiva, rituale nel senso di prossima ai bisogni istintivi e primari del vivere, della sofferenza degli esclusi, degli ultimi, dei «suicidati della società».

È lui stesso a confessare a coloro che gli chiedono da dove nasca una così dolente e feroce pittura che vi sono stati due periodi e modi di dipingere nella sua vita: uno anteriore all’entrata come operatore sanitario nel manicomio di Racconigi, caratterizzato quasi esclusivamente da una fascinazione di puro estetismo verso l’arte e i colori, e un altro, successivo, inevitabile e per certi versi maledetto, sorto proprio a contatto con l’esperienza manicomiale. Aver conosciuto la disperazione di così tante anime vinte, segnate dalla malattia psichica o anche solamente da un eccesso di estro e di sensibilità, troppo spesso materia di fraintendimenti e vergogne in famiglia, di così tante esperienze di abbandono, solitudine e incomprensione, ha fatto sì che la sua pittura, da semplice sguardo estetico sulla realtà circostante sia divenuta, senza possibilità di tornare indietro, un occhio di bue puntato sull’umanità reietta, grido personalissimo e al contempo universale contro l’esclusione sociale dei perdenti e dei più deboli

Ad un cuore spezzato
nessun cuore si volga
se non quello che ha l’arduo privilegio
d’avere altrettanto sofferto.

scriveva Emily Dickinson, profeticamente.

La pittura di Giancarlo, prima di essere diventata l’angoscioso corteo di figure smembrate, scomposte nella loro fisionomia, tornite e avvolte su se stesse come a scavare un proprio rassicurante e dolce grembo materno, che sono i suoi soggetti più riconoscibili, prima di essere diventata il macabro teatro dei suoi volti squarciati, simili ai deportati della Shoah, ha dovuto farsi carico di un incubo vissuto in proprio, lacerante, indimenticabile.
Un incubo divenuto carne del travaglio stesso del pittore, il quale, non potendosi più liberare dal peso di una simile, mai del tutto rappresentabile sofferenza, è entrato, per non uscirne più, nel circuito della necessità espressiva dell’arte più vera, quella cioè che non ricerca la perfezione del bello ma l’assoluta fedeltà a sé stessa, nella coerenza della propria passione, della propria energia viscerale che possiede, come tutte le esperienze davvero necessarie e non rimandabili, qualcosa di virulento e cannibalesco.

Non stupisce pertanto che il nome di Giordano, pur essendo legato a un destino umano e artistico senz’altro rilevante, non sia finora divenuto celebre nel suo contesto di (dis)appartenenza: è per troppa verità di vita, di necessità espressiva che nasce la sua pittura, perciò slegata da qualsiasi interesse di promozione che non sia l’impegno genuino, apolitico ed esclusivamente culturale del suo deformante espressionismo, orientato, a colpi brutali di pennello, verso la nascita di un’umanità più inclusiva e profonda, capace di accogliere le diversità e la follia del prossimo con spirito di empatia e comprensione

In tal senso, lo scopo dell’arte, per Giordano, non consiste affatto, come talvolta ritengono gli artisti stessi, nell’istillare ideologie, valori, ideali estetici (seppure la sua sia una pittura nutritasi a lungo di storia dell’arte e di raffinate ricerche cromatiche) ma nell’incarnare un dolore specifico – nel suo caso quello dei pazienti incontrati nella ventennale esperienza del manicomio di Racconigi – che, attraverso la forza del proprio abisso e della propria verità, si trasforma in voce universale, in segno collettivo della sofferenza dell’uomo di ogni tempo e paese.

Dinnanzi alle sue figure – donne e uomini internati ma non solo, anche disadattati sociali, amici dai volti particolarmente ispiranti – così peculiari e imperscrutabili per difficoltà di penetrarne appieno l’inquietudine, diveniamo spettatori di un dramma collettivo che è, in definitiva, la nostra stessa vulnerabilità di esseri umani, al suo vertice di squallore e meraviglia. Lo scopo dell’arte consiste allora nel definire i termini dell’esistere dell’uomo, preparandolo alla morte, arando il suo terreno friabile di creatura sempre esposta al pericolo dell’impermanenza, rendendo in tal modo la sua anima più affabile, più empatica e più rivolta al bene.

È da questa così marcata evidenza delle opere di Giancarlo che è nato il desiderio di proporle nella mostra Umani, allestita nella Chiesa San Giovanni di Canale d’Alba, di cui il catalogo vuole farsi testimonianza oltreché – grazie ai preziosi interventi critici di Ida Isoardi, Giorgio Barberis, Marco Neirotti, Tommaso Salzotti e Giovanni Tesio – costituire una sorta di traccia ricapitolativa dell’attuale produzione di un artista tanto appartato quanto sorprendente e contemporaneo.

È da questa straordinaria carica di umanità – sebbene tragica e per certi versi insopportabile – che trapela da ogni suo lavoro che si è voluto dar vita a tale progetto: nel solco di un destino che percepiamo come universale, essendo l’uomo di oggi quantomai rappresentato da una pittura così aperta alle infinite sfumature delle sue emozioni e dei suoi sentimenti, rilevabili in Giordano in ogni cangianza, in ogni bituminosa o più azzurrina pennellata di colore, attraverso una tavolozza che sa vendemmiare, quasi miracolosamente, l’intero alfabeto umano, mettendo senza paura le mani in pasta nell’abisso e nella tenebra del vivere.

«Che cos’è l’arte?» si chiese un giorno Andrej Tarkovskij. Rispose: «È una dichiarazione d’amore, una dichiarazione di dipendenza dagli altri uomini, una confessione, un atto inconsapevole, ma che rispecchia l’autentico significato della vita: l’Amore e il Sacrificio».

Anche per Giordano l’arte è stata una dichiarazione d’amore, un modo spontaneo di fornire ai propri sconosciuti interlocutori «un nutrimento, una spinta, un pretesto per un’esperienza spirituale». Le sue opere, senza averne la benché minima pretesa, diventano un’esperienza spirituale: incarnando la banalità del male, la sconfitta degli ultimi, l’annichilimento e lo sterminio delle vittime, elevano l’anima a un piano di ascolto dell’altro che ha qualcosa di sacro, di religioso. Evidenziano, in sostanza, la nudità della persona nel suo essere creatura misera, fallibile e, proprio per questo, nella sua essenza, sacra, a tal punto da trovare nel massacro della storia qualcosa di misterioso e profondissimo, simile a ciò che promette la salvezza divina. Una dichiarazione d’amore, la sua, che nasce dai gironi infernali ma guarda alla luce di un’ipotetica redenzione collettiva, all’eventualità che dalla memoria dei sommersi prenda a insorgere nell’uomo il desiderio di una futura stagione di pietà e di giustizia. Una dichiarazione d’amore che ha il coraggio di affermare, ancora una volta, con voce solitaria e tormentata ma sempre fedele a sé stessa, lo scandalo troppo umano della tenerezza.

Francesco Occhetto
Curatore della Mostra Umani